Schede Rock
Non ho mai ritenuto il rock arte. Non ho mai identificato il rock con la musica popolare. Nemmeno quella della seconda metà del Novecento. Ho sempre ritenuto il rock soltanto un tipo molto circoscritto di musica popolare. E questa una forma d’espressione tanto poco artistica quanto poco considerata adeguatamente da storici e sociologi e invece troppo considerata e malamente dalla congerie dei giornalisti. Ma di tutto ciò ho parlato con ampiezza in testi come alcuni di quelli disponibili nella sezione di saggistica.
Qui ripresento tramite link le monografie di band e le storie di generi rock che ventenne dal 2001 al 2005 ho pubblicato nei siti www.scaruffi.com e in massima parte www.ondarock.it . Per quanto riguarda il primo sito basti dire che Scaruffi è considerabile pur con pecche classificatorie ed estetiche fra i principali storici della musica rock in attività. Purtroppo l’establishment ne è refrattario. Circa l’altro sito invece oltre a stigmatizzarne il rozzo ed equivoco nome riporto la lettera aperta con la quale dopo un lunghissimo periodo di sospensione me ne sono congedato definitivamente. Era il 25 agosto 2011 quando sbrigativo scrivevo quanto segue intitolandolo Censure e commiati.
C’era una volta un sito – questo – che non aveva molti collaboratori né molte schede. In quel periodo decisivo il sottoscritto ha quantitativamente contribuito in modo determinante allo sviluppo del sito che anche grazie a un simile contributo oggi è quello che è. Ma che cos’è oggi questo sito? Un sito il cui Direttore in piena autarchia dispensa saccenti niet a chi – come il sottoscritto – in passato – semplicemente perché ne aveva bisogno – non aveva mai detto di no a nulla. Anche solo per ciò il Direttore andrebbe sostituito con una Direzione un po’ meno autarchica e un po’ più democratica. Certo ho sbagliato io a riallacciare rapporti con chi, per gli stressi motivi – mediocrità e conformismo borghese – per i quali adesso li tronco definitivamente, li avevo slacciati a suo tempo. Ma l’ho fatto quale tentativo di promuovere lo sviluppo dei testi elettronici di contro agli antieconomici e antiecologici libri di carta. Qui sotto trovate i miei due ultimi interventi che non avreste mai potuto leggere perché censurati dal Direttore. Interventi che a costui avevo così giustificato: “Nel contesto di Ondarock il mio stile dovrebbe venir apprezzato (e considerato vitale per Ondarock) non perché buono ma perché ‘diverso’. Non importa poi se questa diversità significa accademismo o altro. Importa che rispetti la grammatica e basta. Allo stesso modo i contenuti vanno tutti bene purché ben informati, nozionisticamente fededegni. Ostacolarmi come stai facendo significa diseducare alla diversità (alla pro-vocazione, al rock) i lettori e soffocare di conformismo il sito (rendendolo uguale a rinnegazioni del rock come XL ecc.). E conformismo è morte perché – biologicamente, non sentimentalmente – diversità è vita. I lettori si lamentano nel forum? Bene! Vuol dire che gli ho dato un po’ di vita! Ogni pro-vocazione, purché vitale, fa bene (lezione punk e rock è punk). Se accademismo è diversità vitale, è più punk l’accademismo che il conformismo borghese di chi desiderando recensioni senza sorprese non s’accorge che non volendo sorprendersi, indignarsi, contrariarsi ecc., non vuole leggere, non vuole esporsi, mettersi in discussione, criticare e criticarsi; ma vuole inutilmente e indifferentemente vivere (leggere) qualcosa di morto perché lui (almeno come lettore/ascoltatore) è morto. Per essere vivi bisogna ascoltare Chopin a 20 anni e Jon Spencer a 90. Esser rock all’accademia e accademici a Ondarock … Altrimenti, al ‘morto’ e ‘sordo’, al ‘non-giovane’, risulteranno ‘grandi’ Velvet Underground e Sonic Youth solo perché altri borghesi prima di lui li hanno, imborghesendoli, canonizzati. E allora costui non sarà mai in grado di scorgere e difendere una grandezza autonomamente”.
Dwarves – Blood Guts & Pussy (1990)
Nel 1980 i californiani Circle Jerks con “Group Sex” – 14 brani per 15 minuti – formalizzarono l’hardcore. Live Fast Die Young il manifesto della loro avanguardia. Dieci anni dopo i Dwarves, da Chicago, con “Blood Guts & Pussy” – 13 brani per 13 minuti – sancirono, dopo varie metamorfosi, la fine del genere, aprendo le porte ai due generi, entrambi post-hardcore, che sanciranno la fine del rock: il grunge (con Cobain che è stato l’ultimo a crederci nel rock e che si è suicidato perché resosi conto dell’esaurirsi definitivo della sua unica forma espressiva) e il cosiddetto, non a caso, post-rock.
Al di là della chiave di lettura costituita dalla storia dell’hardcore – stile importante e trascurato quant’altri mai mentre si potrebbe sostenere che in ambito rock da fine anni Settanta ai Novanta compresi non s’è suonata una nota che o per distaccarcisi o per approssimarsici non abbia tenuto conto, consapevolmente o meno, dell’hardcore – “Blood Guts & Pussy” è opera che si comprende solo se la si riconduce alla sfera avanguardistica. E avanguardia o sperimentazione riuscita, nel rock, è stata quella delle formazioni capaci di creare nuovi generi o stili. Per citare dei nomi: Velvet Underground, Sonic Youth, Venom, Metallica, Dinosaur Jr., Death, Fugazi, Shellac …
Avanguardia significa anzitutto programmazione. Darsi dei programmi e realizzarli. Anzi: di per sé l’avanguardia non consiste nemmeno tanto nel far opere, quanto nel proporre dei programmi; nel declamare dei manifesti. È l’idea originale e inusitata a costituire l’avanguardia. Ed è l’idea perché solo le idee possono rispondere ai canoni di assoluta integerrimità richiesti dall’avanguardia.
Qual è dunque l’idea di “Blood Guts & Pussy”? Fornire una mostruosa versione rock ‘n’ roll di “Group Sex”, potremmo rispondere; per prendere così congedo, una volta che si è giunti alle più estreme forme espressive, sia dall’hardcore sia dal retroterra su cui questo – e più in generale il rock – è sorto: il rock ‘n’ roll appunto.
Da qui – all’insegna d’un oltranzismo formale e contenustico spavaldamente intento a spremere il prima e più completamente possibile il succo della vita – la riduzione di tutto, in particolare degli affetti e della sessualità (e noi siamo preminentemente organismi sessuati), alla fisiologia più viscerale, arteriosa e cruenta. Qualcosa del genere in quegli stessi anni faceva, nel settore metal, un altro mirabile gruppo rock d’avanguardia: i Carcass. È poi importante aggiungere che la concentrazione dell’espressione rock in efferati e irrefrenabili minibrani, si ritrova non solo in Circle Jerks – che furono i primi a proporre qualcosa di simile – e in “Blood Guts & Pussy” – che chiuse, diciamo pure, il cerchio – ma pure nelle opere avanguardistiche di straordinari (nel senso neutro di: fuori dalla norma) quanto trascurati, oggi, gruppi intransigenti degl’anni Ottanta quali Bad Brains, DRI e Napalm Death (ma potremmo aggiungervi anche i ben più noti Slayer).
Ognuna di queste avanguardie esprime a suo modo quell’avanguardia o idea che le accomuna e che consiste nel considerare quale unica forma di onestà precipitarsi a esprimere tutto ciò che si ha da esprimere, e che il mondo ha da esprimere, in un conato di ferraglie strapazzatissime, percussioni ipercinetiche e urla da ultimo giorno d’un condannato a morte.
Se ognuno dei gruppi succitati merita una trattazione a sé per il suo modo di rendere questa macroavanguardia o macroidea di cui abbiamo detto, vediamo adesso qual è il modo specifico di “Blood Guts & Pussy”.
E per vederlo, dopo l’inquadramento avanguardistico del fenomeno, bisogna ricorrere alla già accennata considerazione del rock ’n’ roll. Ad altri ritmi – e con più civili parole non incentrate nell’onnipresente ed in mille modi declinato “fuck” – “Blood Guts & Pussy” sarebbe potuto risultare silloge rock ’n’ roll, anche da ballarsi. Invece “Blood Guts & Pussy” invece con le ritmiche forsennate e gli impropri più truci accusa spietatamente il rock ’n’ roll di esser stato – in forme e contenuti – ipocrita. Perché non estremo – e quindi sincero – come avrebbe potuto e dovuto. Ti facciamo vedere noi qual è la sincerità – qual è la vita che anche tu conosci ma che per comodo e convenzioni non spremi ed esprimi adeguatamente. Ed il modo d’un’espressione sincera della vita sarebbe quello hardcore. Quello consegnato al cinico e bucolico proverbio per cui “la vita è come una scala di pollaio: corta, in salita e piena di merde”. Chi non dice che la vita è “corta, in salita e piena di merde” è un ipocrita borghese e va additato. Ecco allora che “Blood Guts & Pussy” diviene, nemmeno troppo paradossalmente – in cos’altro consistono hardcore e punk? –, opera morale e di moralizzazione. Una lezione d’etica. Etica come prender atto di quello che siamo e declamarlo e ripeterlo a più non posso fino render fioche le corde vocali e livide le membra. Etico l’hardcore, dunque. I Circle Jarks, i Bad Brains, i DRI, i Napalm Death, gli Stayer. Falsi e irresponsabili i rocker che illudono meschinamente – sembra accusare “Blood Guts & Pussy” – con frivoli, stupidi piaceri o convenzionalissimi pseudo-valori. Si tratta invece di tornare alle budella e ai gangli dell’organico laddove questo si confonde nell’inorganico che lo infonde.
“Blood Guts & Pussy” – nel vertiginoso tubo catodico del suo suono – esprime questa non soluzione di continuità e nell’esprimerla trova la sola morale umanamente conseguibile.
Drug Store l’unica concessione – del resto irresistibile – ad un melodismo – del resto motorheadiano – consistente nella contemplazione sconfortata di tutto ciò.
Slayer – Reign In Blood (1986)
Se, come sarebbe argomentabile, la musica popolare, non essendo né arte né scienza, non ha granché di nuovo o importante da comunicare, ma svolge una funzione di compagnia, sprone, supporto, alla stregua di qualche cosa d’atmosferico o d’una conversazione con qualcuno nostro pari, con qualcuno con cui riusciamo ad intrattenere un corpo a corpo esistenziale, allora, la musica popolare cantata in una lingua che non si conosce, dal non capirne i testi non subirà decurtazione alcuna; tanto, non avendo comunque granché da comunicare, la comprensione o meno del testo cantato non altererà granché questo granché. Quando si ha un poco per definizione, si resta in ogni caso con questo poco.
Anzi, se un testo, dopo averlo capito, ci fa cader le braccia perché troppo rozzo ingenuo infantile e banale; non capirlo, non conoscer la lingua in cui è scritto, aiuta, non danneggia quel testo. E consente di stimolare la nostra immaginazione altrimenti frustrata e inibita. Magari, questo sì, è importante capire qua e là qualche parola; giusto per aver l’orientamento all’interno d’un qualche campo semantico; ma non di più.
Tali considerazioni, se valgono per la musica popolare – dalla cavernicola alla dance – valgono in special modo per quello stile del genere rock costituito dal metal. I testi metal – ma meglio sarebbe dire: il campo semiotico metal; in questo comprendendo, oltre ai testi, le copertine degli album, la simbologia e il look dei gruppi ecc. – si sono sviluppati, genericamente parlando, dall’iniziale zotichezza maschilista hard-rock, ad un sempre più esasperato, e fine a se stesso in misura tale da raggiungere sovente il ridicolo, patologico sadismo apocalittico e guerrafondaio, mezzo manicheo e mezzo necrofago. Sviluppo – testi e simboli a parte – accompagnato da una musica sempre più percussiva violenta assordante; tanto da cadere, anche qui, in un fine a se stesso per cui, rotta la barriera del suono, si continua a stanziare cocciuti e conformisti oltre tale barriera ma, senza più nulla da rompere, ciò risulta troppo spesso un qualche cosa d’inutile insignificante e pretestuoso.
Per tradurre quanto detto in stili metal e vedere l’importanza che in tale percorso detiene “Reign In Blood”, si ricorderà che dal metal anni Settanta di Black Sabbath e Judas Priest, poi portato al suo compimento dagli Iron Maiden, si è passati, tramite i Motörhead e i Venom, all’heavy-metal dei Metallica nelle sue sfumature, da alcuni non rilevate, thrash e speed: la prima già dei Motörhead; la seconda giunta ai Metallica grazie all’hardcore che con ciò risulta elemento fondativo del metal più estremo.
Come però, e si parla di trent’anni fa, dell’epoca di “Kill ’Em All”, come andare ancora oltre? Tramite un oltranzismo all’infinito di forme e contenuti, di simboli e suoni. È quello che fecero, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, il grindcore dei Napalm Death e il death metal di Possessed e, appunto, Death. I quali si può ritenere che stilisticamente raggiunsero il punto di non-ritorno per un genere, il metal, che non per nulla, in concomitanza con l’esaurirsi del rock in epoca grunge, e onanismi o speculazioni a parte, non ha espresso quasi più niente d’autentico o degno di attenzione.
Ma l’oltranzismo di chi instaurò il grindcore o il death metal era degno d’attenzione perché avanguardistico. Al pari di quello di chi concentrò la più articolata proposta dei Metallica in un unico aspetto: il thrash, condotto così alle sue estreme conseguenze. “Reign In Blood” è l’opera che, con maggior compiutezza di quelle coeve dei Megadeth, fece questo. “Among the Living” degli Anthrax – dell’anno dopo – svilupperà invece, via il “Restless and Wild” degli Accept, lo speed dei Metallica.
Losangeliani, gli Stayer vissero all’epoca e nel pezzo di mondo in cui si farneticava addirittura di “fine della storia”, perché ormai il pianeta lo si presumeva in mano agl’americani e sembrava che non restasse, se americani, che sguazzare perversi e irresponsabili nell’onnipotente da potersi sbracare a piacimento, capitalismo consumistico: magari sbeffeggiandolo quanto più se ne pretendeva, viziati e viziosi, i benefici. Tanto, c’è così tanta roba – anche in termini di cultura e nozioni, non solo d’oggettistica – che si può, se non si deve, sperperare sciupare giocarsi bersi tutto quel che si riesce. Comunque, non si riuscirà a farci davvero del male perché la società assistenzialistica, perché il surplus clamoroso di ricchezze d’ogni sorta, ci conserverà sempre e comunque. Da qui droga, alcol, metal, satanismo puerile, confuso magari con un nazismo di cui s’ignora bellamente la storia; da qui infingardaggine, strafottenza, contestazione sterile e bizzosa, coazione a ripetere, fino alla mania, di comportamenti divenuti oramai moda e tradizione: quelli sex drugs and rock ’n’ roll e, nell’86, anche quelli metal, che registrava, in quegli anni, il suo acme, non più toccato, di popolarità e vigore.
“Reign In Blood” va ricondotto a questa dimensione per giustificarlo da quanto – nel modo attuale, così diverso e distante da quello dell’86 e che si sa, grazie alle conoscenze fornite da Internet e dalle altre tecnologie, drammaticamente fragile ingiusto e complicato – potrebbe risultare davvero troppo fuori luogo, davvero troppo estrinseco.
Tom Araya, voce e basso, nell’86 aveva 25 anni. I chitarristi Kerry King e Jess Hanneman anche di meno. Il cubano Dave Lombardo, forse il batterista metal più famoso, e intelligente, avendo scelto nel ’99 i Fantômas ed essendo stato scelto, sempre in quell’anno, da John Zorn … – era ventunenne. E l’età – a riconferma del fatto che il rock o lo si fa da giovanissimi o non lo si fa – va messa in conto per una qualche comprensione/giustificazione d’un album ch’altrimenti, anche per questo, potrebbe apparire nella migliore delle ipotesi ridicolo (anche se non mai quanto quelli dei troppi emuli suoi): con una copertina d’espressionismo tanto truculento quanto d’accatto; col logo della band che ricorda la svastica; coi testi delle violentate canzoni che, anche per chi non lo sa l’inglese, debordano, basta qualche ripetutissima parola, sciocca e fissata – ed evidentemente conforme ad una certa moda – truculenta da referto autoptico.
L’oggi blasonato – 10 Grammy Awards – produttore di Red Hot Chili Poppers e Metallica, Rick Rubin, allora sconosciuto ventitreenne e, vista la fedeltà successiva, quinto membro degli Stayer, avrà contribuito in misura decisiva a organizzare nella maniera più compatta e conchiusa il materiale di “Reign In Blood” costituito da 10 tiratissime tracce dalla durata complessiva di meno di 30 minuti. Già questa tempistica pone “Reign In Blood” nell’alveo dell’avanguardia. Il metal aveva abituato ad album ben più lunghi; vicino alla durata sinfonica progressive. Invece “Reign In Blood”, per portare all’estremo e strenuo compimento il thrash dei Metallica, esclude, dei Metallica, la dimensione speed, vale a dire quella velocità e violenza che però si distendono nel tempo in maniera tale da produrre anche un certo epos (si pensi a The Four Horsemen); e lo fa tutto a vantaggio della dimensione thrash, vale a dire della componente hardcore che consentì prima ai Motörhead e poi ai Metallica di passare dal metal all’heavy (si pensi, per restare sempre a “Kill ‘Em All”, a Whiplash).
La differenza del thrash metal di “Reign In Blood” rispetto al metalcore o punk-metal di Agnostic Front e Suicidal Tendencies, è che “Reign In Blood” si colloca nell’epoca del death-metal – “Death Metal” dei Possessed è dell’84 – la quale contribuisce a stabilire inserendo in tessiture hardcore impostazioni (voci e tematiche) poi proprie di death metal e affini. Qualcosa del genere avevano già fatto, rispetto ai Motörhead, i Venom, perciò definiti dark metal. Ma anche in ambito hardcore – con Misfits, Black Flag e Discharge – ci si era avvicinati a una simile contaminazione.
“Reign In Blood” esprime il suo thrash intinto di death negli otto, impeccabilmente tanto identici quanto identificabilissimi, pezzi centrali che – da Piece by Piece a Necrophobic, da Altar of Sacrifice a Criminally Insane a Reborn – vorrebbero ossessionare il mondo rivomitandogli addosso amplificate le sue infinite crudeltà ripugnanze e torture senza ragioni né redenzioni.
Ma sceneggiate e icone a parte, quello che piuttosto sembra rilascino simili – grette per la musica classica, sofisticate per la rock – furie, è un coraggioso e robustissimo tentativo condotto da chi non n’ha i mezzi tecnici o culturali – che dovrebbero esser quelli d’un’equipe di neuropsichiatri – per far fronte alle devianze umane che vengono ad esempio chiamate paranoia, sociofobia, attacco di panico, masturbazione compulsiva ecc. ma che non sarebbero altro che l’ineliminabile natura umana dolorosamente comune a tutti quanti e mascherata solamente dall’ipocrisia borghese.
Angel of Death e Raining Blood, lunghi il doppio degli altri rigurgiti d’una narrazione ricondotta a esplosione, ne sono, ad apertura e chiusura di questa, con le loro accelerazioni e montagne russe telluriche, l’alfa e l’omega mai più rivissuti ma solo, al limite, ripetuti da Obituary, Cannibal Corpse o dagli stessi Slayer degli album successivi nei quali il rock, che tale comunque rimane, mostra inesorabilmente quello che è al di fuori delle sue pietre miliari: noia.