Gorbaciov. A tragedy
Un giovane drammaturgo americano di fine anni Ottanta vuole scrivere una tragedia – “a tragedy” – su Gorbaciov. Domanda a Gorbaciov un’udienza. Gorbaciov unico personaggio in scena inizia a chiedersi inizialmente negandolo con fermezza se la sua e quella del suo popolo e quella del mondo non sia davvero “una tragedia”. Ossia una situazione in cui qualsiasi cosa si scelga essendo male non è possibile scegliere nulla di risolutivo. Da qui a partire dal senso oggigiorno del genere letterario “tragedia” e dello status artistico del teatro tutta una serie di questioni sul mondo presente. Dalla globalizzazione all’americanizzazione alla crisi ecologica alla fine del mondo per una guerra nucleare. Inoltre ipotesi di storia controfattuale.
Sarebbe bene che Gorbaciov fosse interpretato da un attore americano che parla italiano con un pesante accento americano il quale varrebbe così come un’autocritica degli USA o della ragione contemporanea.
Ecco un abbozzo dell’inizio del copione:
Il papa, la tiara, vestito di bianco con in spalla il tricolore italiano sghignazzando follemente calpesta E.T. enfio steso al suolo con appena l’ultime forze per tenere sollevato il suo caratteristico indice bernoccoluto rantolando metallico – Te-le-fo-no ca-sa. Questo al centro d’una scena deserta placcata di luce.
Da un pezzo, troppo tempo fermo lì ad assistere allo schiamazzo emergendo dal buio come da un grave stato letargico – dà le spalle al pubblico mantiene le dovute distanze dal papa – Gorbaciov giacca pantalone voglia sulla calvizie si fa avanti. Apre bocca con tono sommesso disincantato a morte. Nega pressoché la paternità delle sue stesse parole.
– Le bandiere vanno riposte nei cassetti. Solo così si salvano le nazioni. Le genti.
Quale bruttissimo sogno papa bandiera E.T. si dissolvono Gorbaciov si ritrova a centro scena seduto alla scrivania dell’ufficio presidenziale con le mani inerti lo sguardo nel vuoto. Squilla il telefono.
– Mamma. Che piacere! Sì sto bene. È che ho molto lavoro (sulla scrivania nessuna carta e nell’ufficio gran silenzio). Sì ci risentiamo presto. Sì. Mi manchi anche tu.
Dopo un altro tot di silenzio con le mani in mano si dà una mossa prende dal cassetto un foglio bianco. Inizia con la penna biro a disegnare [tutto quanto segue dev’esser mostrato da un maxischermo multimediale sopra la testa di Gorbaciov. Il maxischermo o anche un televisore piccolo vecchio stile, sarà la raffigurazione della mente di Gorbaciov]. Si immagina intanto e gli lievita dalla mente come una pellicola cinematografica la steppa russa. Erbe marroni rincalzate dal vento e imbavagliate dalla polvere. In distese immense e con sopra immoto e slavato il cielo. Si sforza sorvolando di steppa in steppa di distesa in distesa ma nessun animale. Deserto. Deserto eppure più caldo si direbbe. Più caldo e accogliente il deserto che l’ufficio presidenziale. Più sicuro. Tanto che Gorbaciov vorrebbe correrci attraverso a queste steppe. A un certo punto del film a un certo punto della landa una casa in legno più grigia del verde sbiadito che la circonda. Coi vetri come occhi infossati e quadrati e coi muri portanti fatti d’interi tronchi d’albero. Tronchi d’albero quando a vista d’occhio non se ne vedono d’alberi in tutta la landa. Una corteccia nel mare del vento appare là in fondo la casa. Vorrebbe bussarci alla porta della casa Gorbaciov ed è come se gli scappasse una recisa supplica ad alta voce.
– Apritemi!
Poi s’accontenta nel filmato (continua frattanto a disegnare sempre più concentrato sul foglio) di sbirciare dalla finestra. Ma non fa in tempo a vedere che cosa ci sia al di là dei vetri perché il disegno è finito. Lo solleva. È la stilizzazione di un gatto. Chiama al telefono la segretaria. §
– Mi procuri un gatto. Sì ha capito bene. Un gatto. No non importa grande o piccolo fa lo stesso. Ma mi procuri un gatto. Presto. In strada le contadine li danno per una miseria.
Al posto del filmino sulla steppa e il vento e la casa adesso parte dalla mente a cinepresa di Gorbaciov un filmino sulle contadine. Parte il filmino dai fazzoletti. Dai fazzoletti che le contadine russe portano al capo. Poi va subito giù ai piedi. Con scarponi unisex prima durante e dopo ogni moda unisex. E delle gambe grosse nemmeno un pezzetto (nel filmino). Rivestono tutto come coperte le sottane. E una camicetta millefiori (millefiori tristi) sotto un giacchetto. Anche questo unisex. E mezzo plastica mezzo pelle. Mezzo per adulti mezzo per bambini. Il volto per ultimo. Sdentato. Rade dure setole. E a tratti un sorriso deforme e amorfo che vorrebbe passare forse per rubicondo ma non riesce neanche a passare per avvinazzato.
– Miao.
Entra il gatto. A Gorbaciov subito in piedi gli si struscia vivacemente alle gambe. Gorbaciov fermo. Quasi non sa che fare. Poi come dandogli del lei con il massimo del rispetto solleva l’animale. Se lo porta al petto. Lo accarezza. E con lui così torna a sedersi. Fra le fusa del gatto che anche con la testolina cerca di attirare l’attenzione di una testa viola che naviga in chissà quali correnti Gorbaciov come una videocassetta interrotta riprende pigiando quasi play sulla propria immaginazione il film dove l’aveva stoppato. La contadina arriva in città a mattino ben fatto. Chi ha un lavoro ci è andato. Chi ha una scuola ci è andato. Chi ha un senso se lo stringe a sé. Nemmeno tanto traffico a quell’ora verso le undici. Rumore boato quasi lo fanno assommandosi e convergendo il grigio della metropoli e il grigio del cielo. Di grigio rimbomba così tutta l’atmosfera. La contadina ha un gran cesto. Cammina sulla prospettiva sul corso principale. I negozi a lei sembrano tutti modernissimi tutti alta tecnologia. E gli altri gli altri che passano (passa pur qualcuno anche alle undici di mattina) non gli sembrano a lei insensati e senza speranza ma gli sembrano – così immagina Gorbaciov – belli. La bellezza in confronto a lei che è la miseria. Anche il contenuto del cesto che senza esitazione sfracellerebbe a terra gli sembra a chiederglielo – così immagina Gorbaciov – la bellezza rispetto a se stessa che del resto – così immagina Gorbaciov – non è della bellezza preoccupata ma del biglietto ferroviario della corrente elettrica a casa quando tornerà a casa a sera e di un qualche combustibile (sempre a casa a sera) e di un qualche companatico (sempre a casa a sera). Dopo un’ora di goffo cammino (la prospettiva il corso è chilometrico non solo in lunghezza ma anche in larghezza) arriva la donna contadina all’angolo eletto per il suo commercio. A mezzogiorno escono dalle scuole e dai lavori. Inizia ad urlare prendendoli con due dita per la pelle del collo.
– Gatti. Gatti. Gattini appena nati.
Istintivamente Gorbaciov stringe ancora più a sé la bestiola che ha in braccio. Fino con la mano a coprirgli la testa e le orecchie come a risarcimento dei gridi laceranti che devono aver subito. Ma è abbastanza svezzato questo gatto. Se è stato in strada se ha sentito urli su urli dev’essersi trattato di tempo fa. Un tempo tale forse da poter essere dimenticato da lui. Dopo chi sa quanto Gorbaciov sorride. Sorride bonariamente senza riuscire però a raggiungere come forse avrebbe voluto una qualche effettiva dolcezza.
Gatto in collo sfregandogli col naso la testolina baciandogliela si mette ad aprire i cassetti della scrivania uno ad uno lentamente. Non vi trova quello che cerca. Incarti. Non vi trova incarti. Niente. Si alza allora un poco agitato messo il gatto sulla poltrona presidenziale e si gira. Dietro la scrivania c’è in legno un mobile a muro. Il raccoglitore di un archivio. Si mette ad aprire tutti i cassetti. Gli apre tutti. Nulla. Non trova nulla. Nessun incarto. Si dispera. Si stringe la testa con le mani. Si dibatte anche e dice qualche cosa che gli si strozza in gola. Qualche cosa come no – no – no. Niente. In nessun cassetto niente. Lo abbraccia quasi uno dei cassetti del mobile a muro. Lo morde quasi rabbioso nel legno coi denti. Ma poi con la cravatta storta trafelato la camicia mezza sbottonata desiste. Si sofferma per riflettere. Concentrarsi. Quindi sposta il gatto dalla poltrona presidenziale facendolo scendere. Come chi ha tutte le intenzioni di mettersi a lavoro. Un lavoro importante e impegnativo. Proprio niente niente nei cassetti della scrivania e in quelli di dietro non c’era. In verità tutti i cassetti dell’ufficio presidenziale sono pieni. Pieni zeppi di fogli bianchi. Uguali a quello che ha utilizzato per lo sgorbio del gatto. Si rifà da una parte e palpa cassetto dopo cassetto tutte le pile di quei fogli. Tutto quel bianco. Tutta quella cellulosa. Ritto un blocco da duecento fogli in mano lo odora e accosta spasmodicamente alle narici. Poi lo ripone. Si siede. Tira fuori un solo foglio. Lo pone sul tavolo. Lo ha davanti. A tu per tu. Silenzio e foglio bianco. Lo ha davanti. A tu per tu. Silenzio e foglio bianco. Non regge Gorbaciov. Accartoccia il foglio e lo getta a forza per terra. Si riprende la testa fra le mani e si accascia sul tavolo. Parte dalla sua immaginazione un altro film. Un altro tranche de vie.
– Gimme fuel. Gimme fire. Gimme that which I desire.
È l’allucinato videoclip di un gruppo metal. In uno scenario a fosforescenti tinte ora rosse ora verdi quattro esseri umani ciascuno al rispettivo strumento sono quattro sagome nere che con foga estrema suonano. Il canto deflagrante in inglese. È un cavernicolo bituminoso di smog e col sole in eclissi cronica il clima del video. Incorruttibili fattori scenario e clima che la musica per quanto sforzi non altera non comanda. Come una figura la musica che per quanto faccia non potrà uscire mai dallo schermo. Non potrà dal bidimensionale raggiungere mai quale dimensione il tridimensionale. Lo schermo non si buca.
Ridestatosi Gorbaciov si riassesta la cravatta ed il resto. Accarezza con fermezza di nervi e padronanza di sé il gatto saltatogli sulla scrivania. Si riconcentra. Qualche momento e poi un nuovo foglio. Struscia appena sui denti le unghie per propiziare l’ispirazione per razionalizzarla. Prima che vada giù con la penna lo squillo del telefono. È la segretaria. I risultati dei suoi esami clinici dei suoi esami del sangue sono pronti. Che glieli portino subito commenta. E la porta si apre una mano gli allunga una busta marrone. Gorbaciov la fissa fa per dissigillarla subito ma si rattiene. Come chi è pentito per troppa impulsività. Non bisogna essere precipitosi. Tutto ha un suo estremo peso sembra pensare e concludere Gorbaciov. Poi si rivede bambino. Con la madre che lo cura a letto. Un cucchiaione di medicina amara. Il letto dal materasso spesso dalle coltri spesse. Lo soffocava quasi il letto da piccolo quando doveva stare a letto malato e la mamma gli aggiungeva coltri su coltri perché non prendesse gelo. Ne prova tenerezza a rivedersi così. Tenerezza anche per la moglie. Che lo ha curato amorevolmente. Il letto qui se lo rivede più grande a due piazze con meno coperte quasi glaciale non fosse per l’amore ovunque nell’aria come profumo spruzzato di lei. E il giornale il quotidiano al posto delle fiabe sul letto. Immagina poi un catafalco. Catafalco tra piante tra selci a decorazione. E sente del rincrescimento ed emozione nella morte. Non per la vita in sé ma per quel particolare vivere che è l’essere ammalati a casa presso la mamma presso la moglie che ama. E ammalati di una malattia grave da impedire l’uscita il levarsi ma non grave tanto da far versare lacrime alla mamma alla moglie che ama.
Ripone la busta con le analisi in un cassetto. Adesso è di nuovo con le mani in mano. Come non si ricordasse più che cosa doveva scrivere di tanto importante. Tamburella le dita nervoso e fischietta triste sfiatato. Guarda distrattamente il gatto. Tante volte fosse lui a suggerirglielo che cosa scrivere. Ma niente. Il gatto si lecca.
Come chi sente aria chiusa da tanto e tanto. Come chi attraverso una rinfrescata speri in una novità si alza ancora e si dirige alla finestra una finestra dietro una coltre l’unica finestra dell’ambiente una finestra da chissà quanto non considerata. La spalanca. Entra però ben presto un vento fortissimo. Che fa volare il foglio sulla scrivania e alcuni di quelli sui cassetti mezzo aperti. Deve richiudere subito e a fatica soltanto può riuscirci la finestra. Che rimane almeno però non più nascosta dalla coltre.